La buona notizia è che sono vivi. Alla fine ce l’hanno fatta: ci hanno messo la faccia, si sono rimessi in gioco e hanno costruito il nono RoBOt. I dipendenti della scorsa edizione sono ancora incazzati (giustamente, direi); gli echi impietosi della scorsa debacle finanziaria risuonano ad un volume ancora più alto rispetto ai decibel della musica che sono riusciti a proporre quest’anno … ma alla fine Bologna ha avuto il suo festival di musica elettronica, la gente ha riempito i locali, ci sono stati i sold out, le file, le prevedibili polemiche su tessere, organizzazione e quant’altro. Checché se ne dica, il sostanziale successo di questa edizione è una buona notizia. Lo è per la città, per chi la abita e sicuramente lo è per me.
La cattiva notizia è che questo è stato il reboot di una macchina che, alla fine, è sempre la stessa: se la macchina funziona sempre allo stesso modo, chi garantisce che, una volta riavviata, fra qualche anno non si incepperà nuovamente?
Il RoBOt ha sempre avuto due facce, due anime: la prima è fatta di selettori artistici attenti, di performance particolari, di cose belle in orari strani in posti improbabili. L’anima nobile, artistica e preziosa. Quell’anima lì mi ha fatto conoscere i Quiet Ensemble, mi ha fatto assistere ad un concerto meraviglioso di Flako alle 9 di sera con pochissima gente, mi ha regalato Thundercat a Palazzo di Re Enzo. Quell’anima lì quest’anno c’era, e abitava nella Back Room dell’ex Ospedale dei Bastardini. Quell’anima quest’anno ci ha regalato Peggy Gou, Beatrice Dillon, Aurora Halal. Si tratta dell’anima dei “territori inesplorati”.
La seconda anima è invece quella delle “certezze”. Loro la chiamano così. Certezze di cosa?
E’ certa la presenza di tanta gente; è certo che ciò che suonerà avrà un riscontro positivo di massa. Ma è anche certo che non ci stupiremo. A parte una eccezione, la Main Room dell’ex Ospedale era la casa delle cosiddette certezze. Memoryman, The Grasso Brothers, Space Dimension Controller. Cose piacevoli per i più, per carità … ma io (scusatemi) al RoBOt vorrei stupirmi. Non ce la faccio proprio a sentire cose facili e banali, andiamo. Voi potete stupirmi e dovete stupirmi.
L’eccezione della Main Room sono stati i Mop Mop. Grande performance, accompagnati da Wayne Snow. I Mop Mop sono sempre tecnicamente ineccepibili ed emozionanti, chi li conosce lo sa. Ogni volta che sento Pasquale Mirra suonare il vibrafono dal vivo, ho i brividi. Stavolta lo show è stato anche più intenso del solito grazie alla collaborazione con il vocalist e autore nigeriano Wayne Snow. Peccato che la cosa sia durata solo un’ora.
Alla fine ha funzionato? Mah, probabilmente si. Dopo la caduta si sono rialzati e questa è una cosa buona. Poi le polemiche si sprecano: pare che per entrare al Cassero ci volessero due ore di coda, pare che un sacco di gente sia rimasta a bocca asciutta perché i siti si sono riempiti … francamente trovo assurde certe polemiche, era tutto molto chiaro a mio avviso: chi non voleva corre il rischio di restare fuori doveva sborsare 35 euro per un “day pass”, tutto qui. Chi non lo ha fatto, evidentemente ha accettato il rischio ed è inutile protestare, a quel punto.
Mi sembra che i ragazzi di Shape siano ripartiti con uno schema esattamente identico a quello dello scorso anno, ma in scala ridotta. Spero che ciò non significhi che fra qualche anno non ci si ritrovi punto e d’accapo. Territori inesplorati e certezze insieme? Beh, io sarei uno che delle certezze farebbe volentieri a meno. Se la banalità è un effetto collaterale della sostenibilità economica, ce ne faremo una ragione e pianteremo le tende nelle Back Room delle prossime edizioni, sperando che per qualche magico motivo l’anima “buona” del festival resti quella prevalente.