
Sono in metropolitana ed è il momento in cui preferisco ascoltare i dischi per la prima volta; guardarmi intorno mi costringe a concentrarmi su quello che ascolto.
Al lavoro ho fatto tardi e l’amica con cui condivido parte del viaggio conversando è scesa un paio di fermate prima. Accedo alla mia libreria e metto in casuale Hopelessness di Anohni. L’algoritmo di iTunes seleziona per me Obama e mi spiazza: la voce di Anohni, irriconoscibile su un tappeto sonoro elettronico, reitera parole che faccio fatica a capire. Mi riprometto di cercare il testo di questo mantra distorto una volta a casa.
Nel frattempo il vagone si è riempito di facce intente a guardare in basso. Sembra che il mio telefono abbia capito e mi fa ascoltare Watch Me. Il paparino che osserva tutto e tutti, il controllore a cui abbiamo consegnato brandelli della nostra vita è voyeurismo di regime.
Ad un certo punto la voce incredibile di Anohni canta “Lo so che mi ami perché mi osservi sempre… proteggendomi dalla vita, paparino” mentre contemporaneamente le cinque persone sedute davanti a me sono intente a controllare chi la pagina Facebook, chi il profilo Whatsapp, chi la chat di Tinder. Istintivamente prendo il cellulare e chiudo le app, con un brivido.
“Non ti amo più; è da un po` e sono sicura. Mi hai lasciato per un’altra ragazza, mi hai lasciato in un mondo spezzato”. In I Don’t Love You Anymore è la prima volta che riconosco il vecchio Antony nella nuova Anohni; la malinconia e il romanticismo del primo hanno lasciato spazio al lucido dolore della seconda. E` l’epilogo alla storia di I’m in Love; i cigni sono volati via.
Intanto il cinquantenne davanti a me con la fede al dito sta ancora sfogliando su Tinder la galleria immagini.
Sono arrivato a Moscova. Finisco la mia corsa mentre inizia Drone Bomb Me. L’occhio mi cade su una giovane ragazza, appoggiata al muro del mezzanino. Sta lì, a gambe distese e pancione in vista, con un cartello in cui chiede aiuto. Nelle orecchie sento una giovane donna che quasi supplica il drone del titolo: “fammi saltare la testa, esplodere le mie interiora di cristallo, getta il mio porpora sull’erba… penso di voler morire”. La potenza della voce di Anohni è il contraltare all’assoluta impotenza della ragazza, il punto di vista di chi voce non ha. Istintivamente, come da volermi distaccare da ciò che sento e vedo, tiro fuori dalla tasca cinque euro e li porgo alla ragazza. Lei mi guarda per un secondo e mi obbliga a fare i conti con la sua condizione. Per Anohni è la stessa disperazione dell’eterno femminino, della parte debole del genere umano di cui descrive le violenze subite.
Sto infilando le chiavi di casa nella serratura e la voce di Anohni in Violent Men sta adesso cantando “non daremo più alla luce uomini violenti”. Penso che sia una visione semplicistica ma non posso non pensare alla ragazza incinta sulla banchina. E augurarmelo io stesso.
Marco Cavazzini